Una domanda che mi sono fatta tante volte è quella se e in quale misura l’artigiano che esegue materialmente un’opera d’arte per conto dell’artista possa in qualche misura essere considerato coautore della stessa. I più forse considereranno la risposta scontata, mentre altri penseranno trattarsi di mero onanismo giuridico. In realtà trovo l’argomento leggermente più complicato del previsto e comunque carico di conseguenze giuridiche. La domanda mi si è riproposta ancora una volta durante la visita della mostra su Canova alla GAM di Milano, dove sono esposti sia alcuni gessi provenienti dalla gypsotheca di Possagno sia le opere in marmo, alcune provenienti dall’Hermitage. Come lavorava Antonio Canova? Sul sito del Museo (https://www.museocanova.it/come-lavorava-antonio-canova/) si legge che il processo creativo era ben determinato. Lo scultore partiva dalla realizzazione di un disegno, con funzione meramente ideativa, realizzava quindi un bozzetto in argilla e poi un modello sempre in argilla a grandezza naturale. Veniva quindi eseguito un modello in gesso, pure a grandezza naturale, dove venivano collocati i c.d. repères, cioè dei chiodi di bronzo che servivano ai lavoranti per calcolare le distanze. Dal modello in gesso veniva quindi ricavata dagli artigiani la scultura in marmo, che veniva da questi ampiamente sbozzata. Ho letto che Francesco Hayez nelle sue Memorie ha scritto che gli “studenti” di Canova (che in realtà non aveva allievi) “portavano le opere a tal gradi di finitezza che si sarebbero dette terminate: ma dovevano lasciarvi ancora una piccola grossezza di marmo, la quale era poi lavorata da Canova più o meno secondo quello che questo illustre artista credeva dover fare”. Le opere venivano dunque lasciate al maestro, che avrebbe dato loro quella che lui stesso chiamava “ultima mano”, cioè il tocco finale del genio dell’artista. Il caso di Canova è semplice da risolvere: era lui a fare i disegni, lui a fare il bozzetto in gesso, lui a dare l’“ultima mano”, mentre gli artigiani si limitavano semplicemente a sbozzare le opere secondo le indicazioni del maestro. È chiaro quindi che autore è solo ed esclusivamente lo scultore di Possagno. La dottrina peraltro non dubita che le operazioni materiali puramente esecutive di un progetto altrui siano escluse dal concetto di creazione fatto proprio dalla Legge Autore. Ci sono tuttavia casi un po’ più complicati: pensiamo a quello in cui l’artista realizzi solo i bozzetti, poi materialmente eseguiti da un artigiano. Poniamo, ad esempio, le opere che alcuni artisti realizzano con il contributo di un maestro vetraio. A questo proposito, qualche anno fa la Cassazione ha stabilito che “sono coautori non solo l’ideatore e creatore del bozzetto [cioè l’artista: n.d.r.], ma anche il maestro vetraio, il quale non conferisce soltanto un contributo tecnico, tendente a realizzare fedelmente un’idea altrui, ma contribuisce in modo creativo, momento per momento e con i necessari adattamenti, alla stessa ideazione, oltre che alla realizzazione dell’opera” (Cass. 25 novembre 2011, n. 24970). Nel caso esaminato dalla Cassazione l’apporto del maestro vetraio non si era limitato a una “attività tecnico manuale esecutiva” “tendente a realizzare in modo fedele ed esecutivo un’idea altrui convertendola in materia solida”, ma in realtà aveva contribuito “alla stessa ideazione” di ciò che era stato realizzato: vale a dire “l’idea originaria delle bozze [era stata] in qualche modo completata nel confronto con la materia vetro, attraverso l’opera, perciò stesso creatrice, del maestro vetraio”. In un caso come questo, trova applicazione l’art. 10 Legge Autore, secondo cui “Se l’opera è stata creata con il contributo indistinguibile e inscindibile di più persone, il diritto d’autore appartiene in comunione a tutti i coautori”. Poniamo un caso ancora diverso: uno scultore realizza le proprie opere con un tipo di materiale che necessita di essere lavorato da macchinari in possesso di una determinata impresa. Qualche anno fa fece notizia il c.d. “caso Sparasci”: lo scultore e designer Giacomo Sparasci si era rivolto al Tribunale di Milano lamentando che la società Coven S.r.l., specializzata nel trattamento di un particolare tipo di acciaio detto “corten”, e con la quale egli spesso aveva lavorato per la realizzazione materiale delle proprie opere, aveva realizzato una scultura che costituiva una copia di una sua opera, di cui la Coven possedeva un suo bozzetto. Quest’ultima si difendeva affermando che la scultura da essa realizzata era in realtà stata eseguita da un suo dipendente, che doveva considerarsi autore della stessa Il Tribunale di Milano ha in questo caso escluso la coautoralità affermando che dovesse “escludersi alcun tipo di ‘supporto’ da parte [del dipendente] nella fase artistica di creazione delle opere di Sparasci, essendosi evidentemente limitata l’attività della Coven – e per essa del suo dipendente addetto all’ufficio tecnico – all’inserimento del progetto nell’AutoCAD onde impostare la macchina taglio laser, senza che tale collaborazione possa in alcun modo giustificare una compartecipazione di Coven e del dipendente alla paternità delle opere così realizzate”. Essendo in questo caso l’apporto Coven meramente tecnico-esecutivo – alla società venivano infatti semplicemente consegnati dall’artista i bozzetti in base ai quali venivano realizzate le schede tecniche volte a impostare il taglio e la lavorazione delle componenti in metallo che avrebbero dovuto comporre l’opera, puramente esecutivo – il Tribunale, con sentenza del 4 luglio 2017, ha dichiarato che l’opera prodotta dalla Coven costituisse violazione dei diritti d’autore di Sparasci. Il principio espresso da queste decisioni è molto semplice: se nell’attività posta in essere dall’esecutore si rintraccia un contributo creativo, l’esecutore materiale è da considerarsi coautore; viceversa, se il contributo rimane meramente esecutivo di un’idea di altri, questa contitolarità non potrà sussistere. Ciò che è forse più difficile da individuare è la creatività o meno del contributo materiale. Cosa potrebbe dire ad esempio dei “quadri telefonici” di Laszlo Moholy-Nagy dei primi anni venti del secolo scorso, realizzati da un artigiano a cui l’artista ungherese forniva le sue indicazioni via telefono? La questione può essere osservata sotto un punto di vista speculare: è necessario o meno un diretto atto materiale da parte dell’artista perché questo possa essere considerato autore? Interessante a questo proposito ricordare il “caso Spoerri”, deciso dalla Corte di Cassazione civile francese il 5 febbraio 2002. L’artista veniva citato in giudizio da un collezionista dopo aver acquistato uno dei suoi “Tableau Piege”, vale a dire, secondo le parole dell’artista, un’opera costituita da “oggetti trovati casualmente in situazioni di disordine o di ordine [che] vengono fissati al loro supporto esattamente nella posizione in cui si trovano. L’unica cosa che cambia è la posizione rispetto all’osservatore: il risultato viene dichiarato un quadro, l’orizzontale diventa verticale. Esempio: i resti di una colazione vengono attaccati al tavolo e, insieme al tavolo, appesi al muro…“. Il collezionista scopriva infatti che l’opera acquistata, di cui Spoerri di dichiarava l’autore, era stata in realtà realizzata da un ragazzino di 11 anni. La Cassazione condannava l’artista francese affermando che l’esecuzione personale dell’artista è qualità “substantielle de l’authenticité d’une oeuvre et condition déterminante de la qualité d’auteur”. Vale la pena sottolineare che per la Corte non pare tuttavia necessaria al fine di valutare l’autoralità l’esecuzione materiale dell’opera da parte dell’artista, dovendosi valutare anche le prescrizioni che l’artista stesso fornisce magari a un terzo circa le modalità di esecuzione dell’opera. Come è stato osservato (A. Donati, Autenticità, authenticité, authenticity dell’opera d’arte. Diritto, mercato, prassi virtuose, in Riv. Dir. Civ., p. 1013) è infatti probabile che “se l’artista avesse dichiarato nel certificato di autenticità la effettiva modalità di realizzazione dell’opera, il giudice sarebbe stato probabilmente indotto a non mettere in discussione la paternità e l’autenticità dell’opera”. Per chiudere, pensiamo alle opere create dall’intelligenza artificiale, ad esempio a BOB (Bag of Biliefs) dell’artista statunitense Ian Cheng, esposta al Padiglione Centrale della Biennale di Venezia del 2019, una forma di intelligenza artificiale con una personalità e un corpo in costante crescita. BOB assume la forma di un serpente con varie braccia e aggiorna la sua intelligenza vivente all’interno di cicli esistenziali infiniti. Ogni vita è alimentata grazie all’interazione con gli esseri umani che possono influenzare le azioni di BOB tramite un’app. Ci si chiede, in questi casi, chi sia l’autore dell’opera, se il soggetto che ha creato l’intelligenza artificiale oppure quest’ultima in sé stessa. Nel caso in cui i risultati dell’attività di intelligenza artificiale dipendono dalle scelte e dagli input di un essere umano, non sembrano esserci problemi, dal momento che dietro l’azione della macchina c’è quella dell’uomo che programma le sue modalità di funzionamento. Assai più problematico è il caso in cui le opere siano realizzate autonomamente dall’intelligenza artificiale tramite gli algoritmi c.d. di machine learning, ossia metodi matematico-computazionali mediante i quali le macchine sono in grado di apprendere senza essere state esplicitamente e preventivamente programmate: le macchine imparano cioè automaticamente e autonomamente a generare nuove opere tramite gli input inseriti. La materia, come si può intuire, è assai complessa e sfaccettata, e se per alcuni autori la Legge Autore in vigore è di per sé in grado di fornire una soluzione alle varie problematiche alle quali si è accennato, per altri “si potrebbe addirittura pensare alla necessaria riscrittura del diritto d’autore e del diritto sulle invenzioni, o di loro parti rilevanti” (così S. Lavagnini, Intelligenza artificiale e proprietà intellettuale: proteggibilità delle opera e titolarità dei diritti, in Il Dir. Aut., 2019, 3, 11).