Nel solco della Legge di Bilancio 2019 (L. n. 145/2018) è stata introdotta l’imposta sui servizi digitali, la quale – almeno nelle intenzioni del legislatore – si è posta il difficile obiettivo di individuare appropriati criteri di imposizione nei confronti dei big player dell’economia digitale. La disciplina italiana (prevista dai commi da 35 a 50 dell’art. 1 della predetta Legge di Bilancio) è entrata in vigore il primo gennaio del 2020, dopo essere stata in parte rivista dall’art. 1, comma 678 della L. n. 160/2019. Soggetti passivi della web tax risultano essere tutte quelle imprese o quei gruppi che, nell’arco dell’anno solare precedente, hanno realizzato in maniera congiunta: In detto contesto, il legislatore italiano non ha fatto altro che trasporre nella normativa interna, mutuandole parzialmente, le soglie di ricavo già a suo tempo delineate dalla proposta di direttiva COM(2018)148 final sulla Digital Service Tax comunitaria, presentata nel marzo del 2018 nell’ambito di un pacchetto di misure volte alla tassazione equa dell’economia digitale. I servizi digitali soggetti a imposizione rientrano, in buona sostanza, in tre diverse tipologie: L’imposta, peraltro, per espressa indicazione di legge, non trova applicazione per una serie di servizi, tra i quali la fornitura diretta di beni e servizi, nell’ambito di un servizio di intermediazione digitale; la fornitura di beni o servizi ordinari per il tramite del sito web del fornitore stesso di quei beni o servizi – a patto che detto fornitore non svolga funzioni di intermediario –; la messa a disposizione di un’interfaccia digitale, il cui scopo esclusivo o principale sia quello di fornire, da parte del gestore dell’interfaccia stessa, agli utenti contenuti digitali, servizi di comunicazione o servizi di pagamento. Stessa esclusione vale per chi mette a disposizione un’interfaccia digitale al fine di gestire taluni servizi bancari e finanziari (quali, ad esempio, i sistemi dei regolamenti interbancari o di regolamento o di consegna di strumenti finanziari, le piattaforme di negoziazione o i sistemi di negoziazione degli internalizzatori sistematici, ma anche le attività di consultazione di investimenti partecipativi o le sedi di negoziazione all’ingrosso), nonché per gli organizzatori e gestori di piattaforme telematiche per lo scambio di energia elettrica, di gas, di certificati ambientali e di carburanti. L’imposta dovuta si ottiene applicando l’aliquota del 3% all’ammontare dei ricavi lordi tassabili realizzati dal soggetto passivo nel corso dell’anno solare. In pratica, se un servizio imponibile è fornito nel territorio dello Stato, il totale dei ricavi tassabili viene individuato nel prodotto tra la totalità dei ricavi derivanti dai servizi digitali, ovunque realizzati, e la percentuale rappresentativa della parte di tali servizi collegata al territorio dello Stato. L’utente si considera collocato nel territorio dello Stato: Come appare evidente, dunque, per poter individuare gli utenti collocati nel territorio nazionale – ai fini della sussistenza del presupposto di imposta – è necessario procedere alla localizzazione dei dispositivi utilizzati dagli stessi. La localizzazione avviene o attraverso l’indirizzo di protocollo internet (IP) del dispositivo, oppure facendo ricorso “a qualsiasi altra informazione disponibile per i soggetti passivi dell’imposta che consenta la geolocalizzazione del predetto dispositivo”. Nonostante i profili di novità introdotti e la bontà dell’obiettivo perseguito – vale a dire, una tassazione equa sulle grandi imprese del web –, non vi è dubbio che la previsione normativa in questione si esponga a molteplici critiche. In primis, poiché si tratta essenzialmente di un’imposta che si applica al fatturato, verrà con buone probabilità trasferita a valle sui singoli utenti penalizzando, al contempo, anche le stesse imprese italiane, le quali presentano margini più ridotti. In secondo luogo – come, peraltro, è stato già fatto notare dal dipartimento del Commercio americano nell’ambito del rapporto di indagine “Report on Italy’s Digital Service Tax”, pubblicato il 6 gennaio 2021 –, sia le soglie di fatturato, sia la selezione dei servizi coperti dall’imposta, rendono quest’ultima palesemente discriminatoria sulla base della nazionalità, sostanziandosi in un vero e proprio dazio sull’importazione dei servizi digitali delle grandi imprese americane e cinesi. Infine, non meno importante sembra essere la questione legata alla localizzazione dell’utente. Per un verso, infatti, gli utenti si muovono liberamente tra i vari Paesi, così come i loro dispositivi elettronici: da tale prospettiva, appare pertanto evidente che il solo fatto di essere localizzati in Italia non implica necessariamente essere residenti nel nostro Paese. Per altro verso, tutti coloro che hanno uno smartphone sanno che è possibile escludere la geolocalizzazione dalle impostazioni del telefono e in quelle di Google, oppure si può navigare in incognito. In tal modo si impedisce al proprietario dell’interfaccia di essere rintracciati. Ora, se è pur vero che con le moderne tecnologie è possibile comunque geolocalizzare un utente che non vuole essere geolocalizzato, è altrettanto vero che ciò sembra porsi in apparente contrasto con le normative sulla privacy, presenti in tutti i Paesi avanzati. In conclusione, nonostante la pubblicazione questo 15 gennaio, da parte dell’Agenzia delle Entrate, del provvedimento che ha definito le modalità attuative dell’imposta, la web tax italiana presenta ancora oggi profili controversi e di incertezza che presumibilmente faranno da terreno di scontro nelle controversie tra l’Amministrazione finanziaria e le grandi multinazionali del settore.